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Il liberalismo politico di John Rawls: tolleranza, “consenso per intersezione” e “dovere di civiltà”

In una società liberale, la sfera dei valori privati e quella dei valori pubblici devono rimanere distinte. I critici della teoria della giustizia di Rawls hanno evidenziato la mancanza di questa separazione. Consapevole di tale limite, Rawls ha sviluppato il concetto di “liberalismo politico”

di Vittorio Pelligra

8' di lettura

In una società liberale la sfera dei valori privati e quella dei valori pubblici devono rimanere separate. Nella sfera privata è, infatti, naturale che si possano accettare doveri e obblighi in nome di credenze, tradizioni e convinzioni a cui siamo legati e a cui non ci sentiamo liberi di rinunciare. Le tradizioni religiose, familiari, etniche impongono in questo senso scelte e condotte che dobbiamo spesso accettare proprio in virtù della nostra appartenenza e della nostra identità. Ma in una società democratica e liberale, questa non può che essere una questione di scelta personale, soprattutto, ma non solo, in materia religiosa. Nella sfera politica, invece, gli obblighi e i doveri non possono essere fondati sulla concezione di ciò che è bene o male, caratteristica di alcuni gruppi sociali che impongono a tutti i cittadini comportamenti e le regole che derivano dalle loro convinzioni personali.

Convinzioni che, a livello personale, possono non essere messe in discussione, ma che nella sfera pubblica non possono non esserlo. Convinzioni che possono essere criticate e perfino disconosciute. In altri termini, i valori base della convivenza politica dovrebbero essere il più possibile indipendenti dalle convinzioni etiche e dalle visioni del mondo dei singoli. La mancanza di questa esplicita separazione è un dei problemi maggiori che i critici puntualmente hanno imputato alla teoria della giustizia di John Rawls . Negli anni successivi alla pubblicazione del sui primo libro, lo stesso Rawls riconoscerà tale limite e ne trarrà spunto per proporre un’evoluzione della sua visione che va sotto il nome di “liberalismo politico”.

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Il liberalismo politico di Rawls

Il punto di partenza di questa seconda fase della riflessione rawlsiana origina sia dalle molte critiche ricevute dopo la pubblicazione di “Una Teoria della Giustizia” sia dalle mutate condizioni sociali che sembrano interpellare il filosofo mettendo in crisi la sua visione unitaria di giustizia, razionale e valida per tutti. Egli sembra prendere atto dell’esistenza di un “ragionevole pluralismo di fatto”. Nelle nostre società, convivono idee e visioni del mondo che, pur essendo tutte ragionevoli, sono tra loro del tutto incompatibili. Visioni del mondo “incommensurabili”, per usare il linguaggio di Isaiah Berlin.

La reazione del filosofo americano alla constatazione di questa varietà di visioni del mondo incompatibili non è una passiva accettazione del pluralismo tout court. Egli crede, infatti, che la mera coesistenza di visioni del mondo ragionevoli e tolleranti con altre visioni irrazionali, fondate sull’ignoranza, malevole o perfino aggressive possa produrre tensioni e conflitti capaci di minare la stabilità di una società. Il pluralismo da solo non basta. Occorre un pluralismo qualificato, una particolare forma di pluralismo delle idee che, come scrive, è “compatibile con la ragionevolezza di coloro che non sono d’accordo”.

Il “dovere di civiltà”

Questo “pluralismo ragionevole” va inteso, quindi, come un ragionevole disaccordo che riconosce la possibilità che soggetti ragionevoli anche nell’ambito di istituzioni giuste e libere potrebbero non raggiungere l’unanimità su questioni rilevanti della loro vita in comune. Si apre una questione complessa: la necessità di conciliare visioni del mondo irriducibili con l’aspirazione a vivere in una società capace di generare un sufficiente grado di consenso su una visione pubblica della giustizia tale da favorire stabilità e cooperazione anche tra chi abbraccia differenti visioni del mondo. Un elemento centrale nella soluzione di tale questione è costituito da ciò che Rawls chiama il “dovere di civiltà” (duty of civility). Tale principio richiede che coloro che hanno potere decisionale in ambito politico esercitino il loro potere esclusivamente secondo il principio pubblicamente condiviso di giustizia, sulla base di procedure condivise e alla luce della migliore evidenza empirica pubblicamente disponibile. Detto in altri termini, il “dovere di civiltà” richiede che nella sfera pubblica i decisori si astengano da utilizzare i principi che derivano dalla loro particolare visione del mondo, religiosa o meno, e dall’interpretazione della realtà che da tale visione può derivare. Il rispetto di tale dovere è ciò che garantisce l’adesione ai principi di una società liberale anche da parte di quelle minoranze il cui status potrebbe altrimenti determinare esclusione o discriminazione.

Dentro il pensiero di Rawls: il punto di vista di Thomas Pogge

Commenta a tale riguardo Thomas Pogge: “Rawls non spera che i cittadini in determinati contesti dimentichino, per così dire, la loro religione. La sua speranza è, piuttosto, che interpretino i loro doveri religiosi in modo tale che questi permettano – o addirittura richiedano – rispetto per cittadini con punti di vista profondamente diversi” (John Rawls: His Life and Theory of Justice, Oxford University Press, 2007). Occorrerebbe ragionare come se, pur credendo a livello personale, per esempio in virtù di una certa visione del mondo, che una data scelta può essere gradita a Dio, siccome tale conclusione non è dimostrabile con dati accessibili a tutti, credenti e non credenti, tale scelta non potrà essere imposta a livello politico. “Costringere qualcuno a prendere la decisione giusta – continua Pogge - senza potergli mostrare perché è giusta: questo non sarebbe un servizio a Dio ma, al contrario, negherebbe la libertà data loro da Dio. Esortarli ad accettare questa verità senza poterne mostrare le ragioni negherebbe loro il rispetto che è loro dovuto in quanto ugualmente dotati di ragione dal nostro Creatore”.

Aborto, fine vita e non solo: l’importanza di applicare il pensiero di Rawls

Nella sfera politica, dunque, è sempre necessario fare appello a valori e a fatti che tutti i cittadini possono condividere e ai quali possono avere accesso. “Alcune di queste decisioni politiche – conclude Pogge - andranno contro le verità religiose. Ma, dal punto di vista divino, questo male è minore rispetto al negare agli altri cittadini il riconoscimento loro dovuto in quanto creature dotate di ragione e di coscienza”. Quanto sarebbero differenti i dibattiti intorno ai temi del fine vita, dell’aborto, dei diritti civili, della gestazione per altri se solo l’adozione sincera del “dovere di civiltà” fosse una scelta condivisa e più ampiamente praticata.

Mario Cuomo, esempio del “dovere di cività”

Ancora Pogge riporta un esempio interessante a questo riguardo. Negli anni in cui Rawls scriveva “Liberalismo Politico”, il governatore dello Stato di New York era il repubblicano e cattolico devoto, Mario Cuomo. Da un punto di vista puramente personale, in virtù del suo credo religioso, Cuomo era un convinto antiabortista. “Credeva tuttavia – ricorda Pogge - che, nella sua veste di governatore, non dovesse permettere che la sua condotta ufficiale fosse influenzata [dalle sue convinzioni religiose] perché le ragioni del suo credo erano inaccessibili a molti suoi concittadini e quindi non potevano ragionevolmente essere utilizzate come base delle norme che avrebbero vincolato la loro condotta”. Cuomo, ci dice Pogge, decide di opporsi politicamente a politiche antiabortiste, pur essendo queste coerenti con la sua visione personale del mondo, proprio perché la sua visione del mondo era personale e quindi non necessariamente condivisa o condivisibile dalla maggioranza dei suoi concittadini. È questa, ci dice Rawls, l’essenza del “dovere di civiltà”, ingrediente irrinunciabile del dibattito pubblico in una comunità liberale giusta.

Conciliare pluralismo, diversità e istituzioni comuni: il “consenso per intersezione”

Rimane comunque ancora aperta la questione della stabilità e della legittimità. Se le nostre società sono caratterizzate dal “pluralismo di fatto” dove idee religiose, morali, estetiche, tutte ragionevoli ma anche ugualmente irriconciliabili tra di loro, come possiamo sperare di strutturare istituzioni comuni legittime e stabili? Andando a cercare il consenso dove più è necessario, dice Rawls. Andando a scoprire ciò che più ci unisce invece di ciò che ci divide. Fondando la nostra vita in comune su quegli spazi valoriali condivisi che nonostante le differenti visioni del mondo è spesso possibile individuare. Tale desiderio di convergenza e unità rappresenta il nucleo dell’idea rawlsiana del “consenso per intersezione”.

La “stabilità per le giuste ragioni”

Tradizionalmente si considerano tre differenti modalità di raggiungimento della stabilità politica: quella basata sull’unanimismo, quella fondata sul compromesso tra interessi contrapposti e quella fondata sull’autonomia dei cittadini. Nel primo caso, la stabilità emerge come frutto della sottomissione a una visione dominante del bene che si sostiene tramite il ricorso al potere statale che impone l’unica verità perché, come scrive Rawls, “Una adesione continua e condivisa ad un’unica dottrina morale religiosa e filosofica globale può essere mantenuta solo mediante l’uso oppressivo del potere statale”. Una stabilità, dunque, figlia della propaganda e dell’oppressione.

La seconda forma si sostanzia in ciò che Rawls definisce un modus vivendi, un ordine provvisorio fatto di compromessi politici contingenti tra interessi e parti in conflitto tra loro, come nel caso di molti governi rappresentativi o, ancora di più, nel caso delle relazioni internazionali tra Stati, che vediamo fragili quando non perennemente in conflitto. Anche su questa forma di stabilità Rawls è scettico in quanto non fondata su valori morali e incapace di riconoscere il valore dell’autonomia individuale.

La terza forma di stabilità democratica è quella propriamente liberale che si basa su una concezione morale della giustizia politica e risulta compatibile con l’autonomia individuale in quanto fondata non sul compromesso ma sul consenso. Questa è la visione che Rawls chiama “stabilità per le giuste ragioni”.

Come individuare le “giuste ragioni”

Dove troviamo, allora, queste “giuste ragioni”? Ognuno nella sua particolare visione del mondo, religiosa o secolare che sia. Il “consenso per intersezione” è per Rawls, infatti, un processo attraverso il quale i cittadini che sposano valori o religioni differenti, che siano musulmani, cattolici o non credenti, kantiani o utilitaristi, pluralisti o monisti, possono raggiungere un accordo su questioni politiche fondamentali proprio a partire da ragioni che essi ritrovano nelle loro particolari visioni del mondo. Un cattolico che nella sfera pubblica scopre ragioni comuni a quelle di un agnostico sul fine vita perché, nonostante egli ritenga sacra la vita, ritiene, come l’agnostico, ancora più importante non usare la violenza, neanche quella politica, per imporre la propria visione del mondo obbligando gli altri a fare qualcosa di cui non riconoscono le ragioni ultraterrene.

Dovrei tollerare qualcosa che ritengo ingiusto? La risposta di Rawls

Si tratta di una forma alta di liberalismo politico perché esclude qualsiasi appello alle verità ultime proclamate dalle diverse visioni del mondo. Tale appello, infatti, creerebbe divisioni nella sfera pubblica. Al contempo, la giustizia politica fondata sul “consenso per intersezione” non è pura neutralità o una forma di mera secolarizzazione rispetto alle visioni del mondo individuali. Su questa base, il liberalismo è infatti stato criticato sia da destra che da sinistra. Perché questo genere di tolleranza e neutralità sarebbe contiguo all’acquiescenza, al lassismo, al secolarismo disinteressato. Perché dovrei tollerare qualcosa che ritengo essere ingiusto? Affermano i critici. Perché dovrei lasciare i valori del buono e del giusto fuori dal discorso pubblico e relegarli nella sfera privata? La tolleranza presuppone, poi, un rapporto di potere asimmetrico tra chi è tollerato e chi può permettersi di tollerare.

Ma per Rawls le cose non stanno in questo modo. Il suo liberalismo politico si fonda, kantianamente, su valori morali fondamentali come quello dell’eguale rispetto e della tutela della persona come fine in sé. In questo senso, non possiamo parlare di una generica tolleranza, ma piuttosto della promozione di valori politici irrinunciabili. Sono quelli dell’imparzialità, della coerenza e, come abbiamo detto, dell’uguale rispetto che dobbiamo agli altri e gli altri a noi.

Il fatto di essere neutrale con riferimento alle visioni del mondo religiose o anche di quelle laiche ma globali, quelle che proclamano verità assolute, non significa essere scettici o agnostici. Vuol dire soltanto che queste verità assolute non sono di diretta rilevanza politica. Perché, nel liberalismo rawlsiano, il consenso e la stabilità istituzionale non si fondano sull’esclusione o sul disinteresse rispetto a queste visioni del mondo, ma proprio sul nucleo valoriale profondo che queste hanno in comune rispetto ai vari temi di rilevanza politica. L’unico requisito è che tali visioni siano ragionevoli, cioè non aggressive, violente o intolleranti.

Sembra ricomporsi, così, in un quadro unitario, il pensiero di Rawls per il quale con “Una Teoria della Giustizia” arriviamo, attraverso la “posizione originaria”, a una giustificazione razionale dei principi di giustizia e con “Liberalismo Politico” e l’idea di “consenso per intersezione” a una giustificazione politica e pubblica.

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