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John Ralws e la ragionevolezza come garanzia della tolleranza

Nasce dall’insoddisfazione per alcuni aspetti della sua teoria della giustizia l’esigenza della “svolta politica” di John Rawls

di Vittorio Pelligra

7' di lettura

Nasce dall’insoddisfazione per alcuni aspetti della sua teoria della giustizia l’esigenza della “svolta politica” di John Rawls. Con il suo secondo importante libro Liberalismo Politico egli, infatti, si propone di calare in una realtà operativa i temi già trattati nell’opera precedente, Una Teoria della Giustizia. E di farlo, però, in modo da tener conto del pluralismo di valori e delle visioni del mondo che caratterizzano le nostre società.

Il pluralismo negato

Pluralismo che nella sua prima opera non viene riconosciuto e, anzi, in qualche modo, negato. La questione fondamentale che ora è necessario affrontare è quella della “stabilità”: come può una società pluralista trovare l’accordo sulla natura delle sue istituzioni di base nonostante le visioni del mondo adottate dai suoi cittadini relative a significato, valore e scopo della vita umana, sono incompatibili tra di loro? La soluzione di Rawls sta in ciò che egli definisce “consenso per intersezione”. Significa che dobbiamo andare alla ricerca di ciò che ci unisce e non di ciò che ci divide. Alla ricerca di quel nucleo profondo di valori che, in un modo o nell’altro, anche visioni del mondo incompatibili tra loro possono condividere.

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Il consenso per intersezione

In questo senso il “consenso per intersezione” diventa quello spazio comune dove si trova l’accordo sui valori fondamentali e dove si da conto delle proprie ragioni in modo che queste possano essere comprese ed accolte anche da chi ha visioni del mondo, credo o ideologie radicalmente diversi dai nostri. La possibilità di abitare significativamente tale spazio è legata ad un prerequisito, il “dovere di civiltà”; il dovere, cioè, di esprimere le proprie ragioni pubblicamente in termini che siano rispettosi delle differenti opinioni morali o credenze religiose degli altri, e non solo esclusivamente nei termini delle proprie convinzioni personali.

Scrive Rawls “L’ideale di cittadinanza impone un dovere morale, non legale – il dovere di civiltà – di essere in grado di spiegarsi reciprocamente su questioni fondamentali come i principi e le politiche che sosteniamo e votiamo possano essere supportati dai valori politici della ragione pubblica (…) L’unione del dovere di civiltà con i grandi valori della politica produce l’ideale dei cittadini che si governano in modi che ciascuno pensa che gli altri possano ragionevolmente accettare”.

Una strada per la stabilità politica

La strada che intraprende Rawls alla ricerca della stabilità politica parte, dunque, da una profonda e necessaria dichiarazione di tolleranza. Una tolleranza che non si fonda, però, sul valore intrinseco della diversità ma su considerazioni di equità. E tali considerazioni operano in modo da limitare le potenziali ragioni in base alle quali i governi possono agire. Sostiene infatti Rawls che i governi non dovrebbero preoccuparsi della verità o della falsità della dottrina della giustizia che li guida ma delle ragioni che possono essere utilizzate per giustificare le proprie azioni in modo che tali ragioni possano essere comprese e condivise anche da chi ha una visione della giustizia differente. Si può operare così in modo giusto anche avendo visioni differenti rispetto a ciò che è buono e vero.

Questo atteggiamento, che Rawls definisce di “astinenza epistemica”, fa sì che in ambito politico la verità ceda il passo alla “ragionevolezza”.

Conflitti e democrazia

Concentrarsi eccessivamente su ciò che riteniamo “vero”, infatti, può, da una parte, generare conflitti insanabili e intolleranza e dall’altra ridurre lo spazio di partecipazione democratica e favorire una deriva tecnocratica. Al contrario la “ragionevolezza” è la caratteristica politica di uomini e donne che pur aderendo a diverse visioni del mondo che essi considerano vere, come cittadini, nella sfera pubblica, si rendono disponibili a guardare la propria visione del mondo così come si guarda a quella altrui, ovvero, come scrive a proposito Roberta Sala “ad assumere quel punto di vista esterno che rende possibile disgiungere la ragionevolezza dalla verità”. E continua “Se è, infatti, ovvio che, dal punto di vista interno, ciò che si considera ragionevole è anche vero, è da un punto di vista esterno che si può fare tale distinzione. Possiamo dire che la ragionevolezza sia questa capacità pubblica di fare la differenza tra la verità tutta intera, la verità che è per noi e che per noi è l’unica verità, e la verità come gli altri la vedono, cioè come la nostra verità diversa dalla loro, che a loro volta considereranno, per sé e in assoluto, come la verità tutta intera” (La verità sospesa. Ragionevolezza e irragionevolezza nella filosofia politica di John Rawls. Liguori, 2012).

La cooperazione condizionale

Essere “ragionevoli” vuol dire per Rawls essere disposti ad accettare le buone ragioni degli altri, posto che gli altri facciano lo stesso. Un’idea molto simile a quella della cooperazione condizionale studiata dagli economisti comportamentali. Nell’idea di ragionevolezza, quindi, è implicita una dimensione di reciprocità. Qui si pone una distinzione importante tra ciò che è ragionevole e ciò che è razionale. Può capitare, infatti, quando parliamo di razionalità in situazioni simili a ciò che gli economisti chiamano “dilemma del prigioniero”, dove interesse l’individuale e l’interesse collettivo divergono, che essere razionali implichi scelte opportunistiche. Un opportunismo che se diffuso andrà a nuocere a tutti. Quindi la razionalità a volte rischia di essere nemica di sé stessa. Essere razionali significa perseguire il proprio interesse individuale, mentre essere ragionevoli vuol dire comprendere che da un’azione collettiva tutti devono poter trarre beneficio. È questa ragionevolezza che Rawls pone al centro del processo di determinazione del “consenso per intersezione”.

Scrive il filosofo a proposito di una società fondata sul consenso: “́La struttura di base di una simile società è regolata efficacemente da una concezione politica della giustizia che è il centro focale di un consenso per intersezione, quanto meno, delle dottrine comprensive ragionevoli affermate dai cittadini. Ciò permette alla concezione politica condivisa di servire da base per la ragione pubblica nei dibattiti sulle questioni politiche che mettono in gioco elementi costituzionali essenziali o problemi di giustizia fondamentali”. Sono ragionevoli le dottrine così come le persone. E queste ultime lo sono, come sottolinea ancora Roberta Sala, non perché “siano interessate al perseguimento del bene comune; ciò che le contraddistingue è il desiderio di un mondo sociale in cui possano cooperare da individui liberi ed eguali con individui considerati liberi ed eguali, a condizioni accettabili da tutti, secondo un ideale di reciprocità”. Essere ragionevoli significa avere una certa visione del mondo che naturalmente si ritiene essere giusta ma anche accettare, contemporaneamente, la possibilità che gli altri abbiano una visione del mondo differente e incompatibile con la nostra e che pure loro considerano essere vera. Significa essere disposti a prendersi vicendevolmente sul serio. Essere muniti, come afferma Sebastiano Maffettone “di un solido rispetto per gli altri” (Introduzione a Rawls, Laterza, 2010). Per contro, dall’accettazione di questo stato di cose deriva il fatto che dovremmo considerare irragionevole ogni pretesa di imporre una particolare visione del mondo sulle tutte le altre, in virtù di una qualche supposta verità.

Le critiche alla posizione rawlsiana

Questa posizione rawlsiana è stata fatto oggetto di non poche critiche da parte soprattutto di quei pensatori convinti dell’impossibilità di separare le visioni private del bene dalle questioni pubbliche e politiche. Se penso che l’aborto sia un omicidio o che l’omosessualità sia una pratica immorale non si può far finta che tali credenze non siano sostanziali nel momento in cui si discute nell’arena pubblica, affermano molti critici. Non pochi, tra cui il filosofo Micheal Sandel, ritengono che l’invito alla tolleranza di Rawls basato sul primato della ragionevolezza generi una forte discriminazione rispetto a quei cittadini che professano e che vorrebbero vivere secondo un credo religioso. Ma su questo punto, come ricorda Maffettone, la posizione di Ralws è difficilmente fraintendibile. “́La ragione pubblica – scrive Maffettone - non crea alcuna asimmetria tra religiosi e laici. La ragione pubblica di Rawls vuole piuttosto porsi contro ogni forma di interpretazione settaria della vita politica liberal-democratica. E le interpretazioni settarie poggiano su dottrine comprensive, che possono a loro volta essere indifferentemente laiche o religiose. Il cittadino religioso – continua - ha gli stessi obblighi dei cittadini non religiosi, tra cui quello di tradurre le sue ragioni in ragioni comprensibili anche dagli altri”. L’avere e il voler seguire anche in ambito politico una visione del mondo comprensiva, religiosa o laica, non esime nessuno dal dover dar conto, in ambito politico, delle ragioni in base alle quali alcune norme vincolanti per tutti, dovrebbero essere legittime mentre altre no. La radice della democrazia liberale, in questo senso, sta nella possibilità di giustificare regole comuni che possono essere condivise in virtù di ragioni comprensibili e valide per tutti e non su credenze individuali rispetto a ciò che è bene o male. In ambito democratico, secondo Rawls, l’invocare verità assolute come base di azioni politiche vincolanti rappresenterebbe nient’altro che l’anticamera del totalitarismo laico o del fondamentalismo religioso.

Il liberalismo politico

Come bene sottolinea Roberta Sala il liberalismo politico di Rawls “non respinge le credenze in sé ma le credenze quando diventano terreno di coltura di un uso arbitrario della coercizione; respinge non la verità né la convinzione dei credenti di possedere tutta la verità; piuttosto, prescrivendo vincoli epistemici, costruisce tutele per il discorso pubblico, difendendolo da ciò che seguirebbe se la credenza di possedere tutta la verità implicasse il suo essere automaticamente giustificata come politicamente autorevole”. Il requisito della ragionevolezza non può essere pensato, dunque, come una forma di discriminazione verso forme di vita di ispirazione religiosa, come pure qualche critico ha sostenuto (Greenawalt K., Private Consciences and Public Reasons, Oxford University Press, 1995; Weithman P., Why Political Liberalism? On John Rawls’s Political, Oxford University Press, 2010), ma piuttosto come antidoto ad ogni forma di imposizione autoritaria a carico di visioni parziali, irragionevoli e infondate, benché legittime sul piano personale e privato. Eppure, il dubbio che i requisiti dell’“astinenza epistemica” rawlsiana siano eccessivamente restrittivi e irrealistici per fungere da premessa per un concreto dibattito pubblico, sorge ed è legittimo. Una via d’uscita dalle difficoltà del “consenso per intersezione” basato sulla distinzione tra buono e giusto e tra vero e ragionevole, potrebbe secondo alcuni rinvenirsi in una qualche forma di “liberalismo giustificativo” per la quale si possa immaginare un dibattito tra posizioni inconciliabili, fondate su visioni del mondo personali e differenziate, ma che dovremmo considerare egualmente titolate a sostenere ragioni anche in assenza di una qualche giustificazione pubblica. “L’idea, in sintesi – suggerisce ancora Roberta Sala - è che ci sia spazio per il compromesso, che per definizione non si realizza sulla condivisione di valori comuni, ma si attua a partire dalle posizioni degli individui concreti, adottando ciascuno non lo sguardo impersonale della ragione pubblica ma quello personale della ‘prima persona’, dal quale si difendono i propri valori (…)

Lo scopo non è quello di cancellare né lo spirito della ragionevolezza né l’istanza della ragione pubblica, ma solo quello di valutare se esistano modi alternativi per trattare le posizioni che non rispondono ai requisiti di entrambe, che sono cioè refrattarie alle condizioni di inclusione nella sfera politica”. Il modus vivendi, fatto di compromesso e di bilanciamento degli interessi, forse non è così negativo come Rawls l’aveva definito. La questione, in altri termini, viene a riguardare la possibilità di includere anche coloro che ci appaiono “irragionevoli” nell’ambito del dibattito pubblico. Quel dibattito che finora era stato appannaggio dei soli “ragionevoli”.

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