salari a confronto

Da Goldman a Hsbc, perché le donne guadagnano meno della metà degli uomini

di Monica D'Ascenzo

Ap

5' di lettura

Se un uomo guadagna una sterlina. Una donna in busta paga ci trova 41 centesimi. È questa la proporzione delle reminerazioni in HSBC Holdings, che in Gran Bretagna si riscopre campione di disparità salariale fra uomini e donne. Il gruppo ha una differenza media di stipendio del 59% a favore dei dipendenti uomini. Una situazione non anomala fra le aziende, e non solo in Gran Bretagna. Perché allora fa notizia? Innanzitutto perché è il gender pay gap più alto fra i grandi gruppi britannici che hanno diffuso i dati sulle retribuzioni. in secondo luogo perché equivale quasi a tre volte la differenza salariale di genere media a livello nazionale del 18 per cento, secondo i dati diffusi dall’Office for National Statistics. Non solo. Il divario è destinato a salire al 60% quest'anno, secondo quanto riportato dal gruppo bancario.

Si tratta di un caso isolato? Tutt’altro: in Goldman Sachs il divario è del 55,5%. Non tanto di meno. Senza contare, poi, che il divario in fatto di bonus sale al 72 per cento. Non va meglio negli altri grandi gruppi bancari: per le donne che lavorano in Barclays la busta paga è più leggera del 48% rispetto ai colleghi; in Bnp Paribas il divario è del 38% e scende al 31% in Ubs.

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Posizione di vertice agli uomini
Ma qual è la giustificazione dei grandi gruppi bancari? La sproporzione nel numero di uomini in posizioni apicali, rispetto alle colleghe, fa sì che la remunerazione media dei primi sia più alta. Quindi al gap salariale, si aggiunge anche la mancanza di opportunità di carriera per le donne: la percentuale di donne partner nei grandi gruppi bancari oscilla fra il 10 e il 12 per cento. E Goldman Sachs è quella che nella City ha meno donne ai livelli apicali. Certo le dichiarazioni formali per ribilanciare la situazione non mancano e lo stesso presidente David Solomon si è sempre speso a favore di una maggiore equità. E proprio giovedì il gruppo bancario americano ha diffuso una lettera fra i dipendenti sottolineando come obiettivo quello di avere metà della propria forza lavoro rappresentata da donne. Peccato che la banca non abbia, però, indicato alcun termine temporale entro il quale il target dovrà essere raggiunto. Sembra che almeno per quanto riguarda la divisione analisti, l’obiettivo sia stato fissato al 2021.

I dati sono stati resi noti per “obbligo”: le aziende con oltre 250 dipendenti, in base all’Equality Act del 2010, devono comunicare entro il 4 aprile le differenze salariali al loro interno. Questo ha permesso di iniziare a costruire una mappa delle disparità nella City. Ad oggi, però, solo 2700 aziende su 9mila hanno comunicato i dati richiesti al sito del governo preposto alla raccolta. Si attendono al varco soprattutto gli altri grandi gruppi bancari americani che operano nel Paese.

La Gran Bretagna non è un unicum
La soluzione britannica di imporre una disclosure dei dati dei salari suddividsi per genere non è affatto un unicum a livello internazionale. La legge tedesca, ad esempio, prescrive per le imprese con oltre 200 impiegati di render conto, a chi vuole saperlo, di quanto viene pagato un collega per la stessa prestazione lavorativa. Nel provvedimento sono coinvolte 18 mila imprese tedesche. Mentre circa 4.000 imprese con oltre 500 impiegati dovranno regolarmente fornire dei rapporti proprio sul trattamento salariale, chiarendo quindi quanto gli stipendi siano effettivamente “allineati”. La misura si è resa necessaria dal momento che lo scarto di stipendio fra uomini e donne in Germania è del 21% circa.

In Islanda il governo ha deciso di fare un passo in più: la legge prevede che i datori di lavoro forniscano documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetta la parità retributiva tra gender. Il controllo del rispetto della gender equality salariale non è, però, solo teorico. È stato, infatti, affidato alla Lögreglan (polizia), alla polizia tributaria e anche al reparto scelto delle forze dell'ordine. I controlli inizieranno dal 2018 e termineranno entro il 2022.

Negli Stati Uniti era stata l’amministrazione Obama a dare una svolta nel 2009, quando il presidente firmò Lilly Ledbetter Fair Pay Act, cui ha fatto poi seguito The White House Equal Pay Gap del 2016. Quest’ultimo, già siglato da oltre 100 società, è l'impegno volontario a dare visibilità delle politiche di remunerazione interne e dei dati relativi agli stipendi.

Anche in Italia esiste una norma sulla trasparenza
E l’Italia? Forse non tutti sanno che anche da noi esiste una normativa al riguardo. Si tratta dell'articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. La legge prevede che le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti siano tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. I dati andrebbero consegnati alle rappresentanze sindacali e alle consigliere di parità. In caso di non ottemperanza la ratio finale è la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall'azienda. Eppure di dati , soprattutto sullo spaccato delle retribuzioni per genere a parità di livello e mansioni, non si parla.

La “volontarietà” britannica anche nei board
La City londinese da tempo si pone il problema delle differenze di genere non solo in termini salariali. La mancanza di donne a livelli manageriali, aveva spinto il governo ad affidare qualche anno fa a Sir Philip Hampton un’analisi della situazione sulle cento società a maggiore capitalizzazione quotate a Londra relativa alla presenza di donne nei cda. I risultati erano stati così devolanti che Sir Hampton aveva proposto come target del 33% da raggiungere in modo volontario da parte imprese entro il 2020. Nel novembre scorso Sir Hampton ha rilanciato: l’obiettivo di una maggiore presenza femminile, a suo avviso, andrebbe esteso anche alle posizioni di senior executive delle imprese e non solo per le aziende del Ftse100, ma per tutte quelle dell’indice FTSE 350. Per raggiungere l’obiettivo nel prossimo triennio il 40% delle promozioni dovrebbe andare a favore di donne.

Le aziende britanniche a maggiore capitalizzazione hanno risposto almeno formalmente: 44 società finanziarie hanno siglato l’impegno, per un totale di 650mila dipendenti nella City.

In Italia, con la legge Golfo-Mosca si è, invece, introdotta l’obbligatorietà delle quote di genere nella composizione di consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate e nelle partecipate pubbliche. La legge ha permesso di superare una percentuale del 30% di presenza femminili nei board dal 2012 ad oggi.

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