Economia

Commercio, Trump non sa quello che fa: ecco perché è una pallina impazzita

Un iPhone confezionato per Apple dalla Cina ha in realtà solo il 3,6% di valore prodotto nel Paese asiatico. Il grosso è da attribuire ad altri fornitori: Giappone, Germania, Corea. Ma la Casa Bianca agisce come fosse ancora in un mondo che non c'è più da decenni

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L'aspetto più preoccupante della politica commerciale che Trump sta attuando è la conferma, giorno dopo giorno, che il presidente e i suoi consiglieri non sanno in che mondo vivono. Sono in ritardo di un secolo. Pensano ad un mondo in cui è possibile invocare la sicurezza nazionale per colpire il proprio principale alleato (la Cina non rientra neppure nei primi dieci esportatori di acciaio negli Usa, l'Europa sì). In cui si può intimare al governo tedesco di rallentare l'export delle multinazionali dell'auto e dettagliare a quello cinese le proprie richieste: 100 miliardi di dollari di surplus in meno, veda Pechino come fare.

Soprattutto, Trump immagina che la Bmw fabbrichi le sue auto a Monaco, le porti a Rotterdam, le imbarchi su una nave, per poi venderle a New York o in Alabama. Ma il commercio internazionale non funziona più così, ormai da qualche decennio. Il 70 per cento delle merci che attraversano le frontiere scorre lungo quelle che gli economisti chiamano "catene globali di valore", ovvero una lunga, a volte lunghissima, serie di fornitori e subfornitori, che fanno rimbalzare il prodotto attraverso il pianeta, fino all'assemblaggio finale. E' il sistema sanguigno su cui è costruita la globalizzazione.

Più del 60 per cento delle esportazioni dei paesi industrializzati - in quelle emergenti la percentuale è più alta - riguarda prodotti intermedi. Più di un quarto del valore delle esportazioni italiane, come di quelle tedesche, è costituito da componenti del prodotto, importate dall'estero. Negli Usa, questa percentuale sul valore delle esportazioni - secondo le statistiche Ocse - è più bassa, al 15 per cento. Ma perché il mercato interno è enorme e il grosso di quello che produce, con il suo valore di importazioni, anziché essere esportato, viene consumato dagli stessi americani. In Cina, un terzo dell'export nazionale ha contenuto non cinese e questa quota sale al 66 per cento per i prodotti dell'informatica e dell'elettronica.

Il caso di scuola delle catene di valore è infatti la Apple. L'iPhone ha un centinaio di fornitori, sparsi per il mondo (Italia compresa). Una famosa ricerca di qualche anno fa dell'Asian Development Bank calcolava che un iPhone 6 - venduto a 649 dollari - avesse in realtà un costo di produzione di 224,80 dollari. Di questi, il 34 per cento risaliva a componenti giapponesi (il touch screen Toshiba), 17 per cento tedesche (i semiconduttori Dialog e il gps Infineon), 13 per cento coreane (il processore Samsung). I cinesi, assemblatori finali (Foxconn) arrivavano buoni ultimi, con il 3,6 per cento, circa sei dollari e mezzo sui 224 totali. Ma, siccome l'iPhone finito arrivava negli Usa dalla Cina, comportava, sulla bilancia commerciale americana con la Cina un deficit annuo di 1,9 miliardi di dollari che, in realtà, solo per 48 milioni di dollari era imputabile alla Cina: oltre 500 milioni erano del Giappone e più di 200 della Germania.

Negli anni, la Apple ha modificato la propria catena di fornitori, ma il principio è rimasto. Questo vuol dire che, se si prendono per buoni i calcoli dell'Ocse (l'Organizzazione che raggruppa i paesi industralizzati), la Cina non ha nessun bisogno di tagliare di 100 miliardi di dollari il suo surplus con gli Usa, come le chiede Trump, perché lo ha già fatto. Anzi, ha fatto di più: depurato delle componenti straniere presenti nei prodotti formalmente cinesi che arrivano negli Usa, il surplus con Washington, dice l'Ocse, è più basso di un terzo: 135 miliardi di dollari. Perché la Cina dovrebbe farsi carico di tagliare il surplus giapponese o coreano? La Camera di commercio cinese in America va anche più in là: il 50 per cento del surplus cinese nel commercio con gli Usa è il frutto della vendita dei prodotti che le imprese americane realizzano in Cina, come la Apple. Dazi e tariffe colpirebbero anzitutto loro.

Ognuno nel commercio internazionale fa i propri interessi e distribuite ragioni e torti non è facile. Ma la politica di Trump rischia di essere come la pallina impazzita di un flipper, che colpisce a caso e in modo imprevedibile, con danni impossibili da prevedere.