«maometto bond»

Con la corsa dell’oro nero il Golfo frena sui Sukuk

di Simone Filippetti

2' di lettura

Doveva essere l’anno del boom, quello della consacrazione come una grossa gamba del mercato mondiale dei capitali, e invece il 2018 parte malissimo per i bond islamici che da futura promessa rischia di diventare un flop; e la colpa è del petrolio. Nei primi sei mesi dell’anno le emissioni di Sukuk, obbligazioni compatibili con la religione islamica, sono crollate del 15%: il volume è sceso dai 52 milioni dell’anno scorso ai 44 del 2018 (secondo una ricerca dell’agenzia di rating S&P). Ancora peggio i bond in valuta straniera, islamici sì ma destinati ai mercati internazionali, che si sono addirittura dimezzati (-45%).

Se le cose non cambieranno, a fine anno i «Maometto Bond» a livello globale si attesteranno attorno ai 70-80 miliardi, ben al di sotto dei quasi 100 miliardi dell’anno d’oro 2017 che aveva fatto gridare al miracolo e che faceva appunto prefigurare un boom mondiale della finanza islamica trascinata proprio dai bond mussulmani. Ma l’anno era già iniziato sotto una cattiva stella: nei primi tre mesi i volumi di Sukuk erano rimasti praticamente fermi, con un misero +1%, a quota 80 miliardi. La pesante battuta d’arresto è una delle conseguenze, indirette, del petrolio stabile a prezzi alti, tornato a 80 dollari dopo anni di difficoltà. Gli stati arabi, tra i maggiori produttori al mondo di petrolio, si finanziano solo in due modi: o con i barili di oro nero, storica fonte di entrata per gli stati del Golfo Persico; o con i Sukuk, equivalente dei nostri BoT e BTp. Scoperta, questa dei Sukuk, recente per gli emiri, che fino a pochi ad anni fa non avevano deficit di bilancio e non avevano debito pubblico. Ma la caduta del petrolio, che portò i bilanci statali a finire in perdita, aveva costretto anche i regnanti più ricchi del mondo a indebitarsi per finanziare budget statali a dir poco faraonici. Ma petrolio e Sukuk sono due vasi comunicanti dello stesso meccanismo idraulico: i conti pubblici.

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Se sale il prezzo del petrolio, e dunque gli stati arabi incassano più soldi, non serve emettere Sukuk. Soprattutto, poi, in uno scenario di tassi d’interesse al rialzo che costringerebbe i paesi del Golfo a emettere Sukuk con rendimenti più alti per attrarre gli investitori (e questo aumenterebbe il costo del finanziamento al servizio del debito). Gli investitori stranieri, dall’altro canto, sono oggi più tiepidi a comprare debito sovrano dei paesi del Golfo: le nuove tensioni geopolitiche in Medio Oriente frenano l’appetito. Lo stop dei Sukuk dipende molto dall’Arabia Saudita, il Paese con il maggior numero di emissioni e quello che più ha animato il mercato finora: nel 2017 da sola aveva emesso titoli per 9 miliardi. I problemi del colosso Dana Gas, che ha dovuto ristrutturare 700 milioni di debito non ha aiutato il mercato dei bond islamici.

Quello che la finanza islamica perde in business e mercato, è però una buona notizia per gli emiri: meno bond lanciati sul mercato, vuol dire meno debito pubblico.

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