Nonostante la laurea in giurisprudenza, il master in organizzazione aziendale, la docenza alla Sapienza e il lavoro alla Corte dei conti, «mi sento sempre un ragioniere», si schermisce con gli amici Mauro Nori. Romano, ex rugbista di buon livello, dell’istituto previdenziale conosce praticamente tutto, essendoci entrato per concorso 25 anni fa e avendo ricoperto incarichi in ogni ambito: area contributi e vigilanza, servizio controllo interno, ufficio di presidenza del consiglio di indirizzo, rapporti internazionali, flussi migratori, risorse umane.

Fino alla direzione generale nel 2010, in cui si è rivelato tutt’altro che uno yesman. Nominato da Maurizio Sacconi, all’epoca ministro del Welfare, si scontrò a viso aperto con Antonio Mastrapasqua, all’epoca il più potente boiardo di Stato: presidente dell’Inps per sei anni, unico votato all’unanimità da entrambe le commissioni parlamentari, prima dell’arresto Mastrapasqua era stato contemporaneamente collettore di incarichi in 54 società.

Durante l’incorporazione di Inpdap ed Enpals, Nori riscontrò una sensibile differenza di costo nella gestione degli immobili, affidata ai grandi gruppi privati poi finiti nel ciclone Consip. Nonostante le sollecitazioni, rifiutò di rinnovare i contratti automaticamente, come avveniva da più di un decennio. Portò le carte in Procura e bandì nuovi appalti.

Nel 2011 collaborò con il ministro Elsa Fornero alla riforma delle pensioni. Ma tra i due ci furono tensioni quando scoppiò il caso degli esodati. La Fornero scaricò la responsabilità sull’Inps. Il 12 giugno 2012, dopo una turbolenta riunione di due ore, vergò un comunicato di fuoco, accusando i vertici di «giocare al massacro» e chiedendone la testa. In realtà il ministro conosceva da tempo i dati. Ma Nori non volle difendersi pubblicamente e continuò a lavorare con la Fornero sulle salvaguardie per gli esodati.

Un profilo non diverso da quello scelto nel 2015 con Tito Boeri. L’economista bocconiano si era appena insediato e Nori, prossimo alla scadenza, mise il suo mandato a disposizione del nuovo presidente. Il quale in privato gli assicurò la riconferma, salvo comunicarne pubblicamente la rimozione. Nori restò senza incarico e con lo stipendio decurtato, subendo «angherie e soprusi» nell’ambito di una «vicenda incresciosa» conclusa solo nel 2018, dopo il ricorso alle vie legali, con il riconoscimento di 42.000 euro di retribuzioni arretrate, compreso un premio di risultato.

Nel frattempo, Nori era stato nominato (promoveatur ut amoveatur) giudice della Corte dei conti dal governo Renzi. Attualmente è consigliere della sezione di controllo della Toscana. L’anno scorso Giovanni Tria l’ha chiamato al ministero dell’Economia come consulente legislativo, stipendio 19.200 euro l’anno.

I leghisti lo conoscevano dai tempi dell’Inps, la fiducia non è mai mancata. Con i grillini - in particolare con la viceministro Laura Castelli - si è consolidata negli ultimi mesi. Nori ha contribuito a elaborare la riforma delle pensioni «quota 100» nelle sue diverse versioni - età, contributi, costi per il sistema - modificata nel tempo per renderla compatibile con gli obiettivi di deficit pubblico concordati con l’Ue. Poi ha collaborato alla definizione del reddito di cittadinanza, in particolare sugli aspetti più problematici come l’attribuzione agli stranieri.

E quando alcune sue proposte non sono state accolte, ai collaboratori che se ne dolevano ha spiegato che il compito dei tecnici è studiare le ipotesi, ma solo ai politici spetta scegliere quella che ritengono più consona agli obiettivi da loro definiti. «Col tempo - è solito dire - ho capito il senso di una frase di Cossiga ai tempi di Mani Pulite: Di Pietro fa politica anche se non lo sa. Vale per chiunque abbia incarichi pubblici, tanto più se con grande visibilità».

Certo all’Inps non avrebbe lo stile interventista e «politico» di alcuni suoi predecessori, Boeri in primis. Sia leghisti che grillini raccontano che, sondato per la disponibilità, ha posto un’unica condizione: una nomina istituzionale e non partigiana, «altrimenti io un lavoro ce l’ho».

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