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La sfida delle Borse nella corsa all’oro del business dei dati

Lse e Nyse generano da analisi e numeri il 34% dei ricavi, il Nasdaq il 28%, Euronext il 19% e Deutsche Börse l’11%

di Vittorio Carlini

New York Stock Exchange (Reuters)

5' di lettura

Borse che sfidano Bloomberg o FacSet. Società-listino contro altre società-listino. È la corsa all’oro del business dei dati finanziari. Una competizione con in palio un mercato da 30 miliardi di dollari. La mossa più eclatante, indubbiamente, l’ha fatta il London stock exchange (Lse) che, in estate, ha avviato lo shopping di Refinitiv. E però la contesa, di cui poco si parla, è più profonda e parte da lontano. La prova? La fornisce Be Consulting. La società di consulenza ha analizzato i bilanci dei gruppi che gestiscono i principali listini mondiali: dallo stesso Lse a Wall Street (Nyse e Nasdaq) fino ad Euronext, Deutsche Borse e Hong Kong.

Le voci contabili
Ebbene dai vari conti economici risulta che sia l’Ice (Nyse) che Lse, nell’ultimo esercizio, hanno generato dall’attività di “info provider” il 34% dei loro ricavi. Il Nasdaq, dal canto suo, è riuscito a realizzare attraverso dati ed indici il 28% del giro d’affari. Seguono, poi, il listino paneuropeo Euronext e Deutsche Borse: i due gestori di mercato si sono rispettivamente assestati a quota 19 e 11%. Infine Hong Kong. La Borsa dell’ex colonia britannica, a ben vedere, costituisce l’eccezione: le vendite appannaggio dei dati pesano il 6% del totale. Di là da quest’ultima percentuale, però, la dinamica di fondo è chiara: le società-mercato vogliono giocare le loro carte nella partita di dati e informazioni.

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Certo: il business tradizionale resta rilevante. Così ad esempio il post trading, cioè la finalizzazione della negoziazione dei titoli con il passaggio di proprietà degli stessi, per la City di Londra vale il 38% del fatturato. Inoltre anche le commissioni da negoziazione mantengono un discreto rilievo. Ciò detto, tuttavia, il ruolo da “info provider” è sempre più centrale. L’Ice, nel corso degli anni, ha incrementato quest’area di business: nel 2016 valeva il 29,7% dei ricavi per passare al 33,2% nel 2017 e arrivare, per l’appunto, al 34% nel 2018.

Non solo. Il trend al rialzo è confermato nello stesso terzo trimestre del 2019: il mondo dei dati è salito del 5%. La storia, peraltro, è replicata sulle rive del Tamigi: da un lato il peso del settore dell’ “info provider” è cresciuto nel corso degli esercizi (tre anni fa era al 31,1%); e dall’altro, nel momento in cui l’operazione con il fornitore di dati Refinitiv dovesse essere conclusa, è ovvio che quest’area diverrà ancora più centrale.

La tecnologia
Fin qui percentuali e trend. Quali, però, le cause che spingono li gestori delle Borse alla corsa all’oro dei dati? La risposta è articolata. In primis c’è l’innovazione tecnologica. «I mercati - spiega Anna Kunkl, director di Be consulting - sono complessi. Sia sul fronte della molteplicità delle piattaforme di scambio che delle strategie d’investimento. I dati, soprattutto nella loro più sofisticata formulazione, sono essenziali agli operatori».

«Gli investitori - fa da eco Raimondo Marcialis, ceo di McAdvisory - hanno bisogno non solo del numero grezzo di una quotazione. Bensì anche della sua elaborazione che è alla base, ad esempio, delle strategie quantitative o di quelle che sfruttano l’intelligenza artificiale». A fronte di ciò è chiaro perchè le Borse, da una parte, «vogliano - afferma Tullio Grilli, responsabile del brokerage elettronico di Banca Akros - dire la loro in un business così ricco, facendo concorrenza ai tradizionali “info provider” come Bloomberg»; e, dall’altra, competano «anche tra di loro stesse per attrarre nuova clientela». Magari, «presentandosi quali soggetti in grado di soddisfare tutte le esigenze in un’unica soluzione».

Il fronte dei costi
Ma non è solo una questione di tecnologia. Altro tema è costituito dai costi. «Sotto questo aspetto - riprende Kunkl - può ricordarsi che, ad esempio per gli istituti finanziari, gli oneri legati ai dati possono arrivare fino al 20% di quelli associati al business dell’investment banking». La percentuale non è da poco. In tal senso i listini, fonte “primaria” dei numeri, puntano ad attirare gli operatori con i loro pacchetti di dati ed informazioni.
Tutto rose e fiori, quindi? La realtà è più complicata. Il fronte dei costi è surriscaldato. Da una parte i trader, sia negli Usa che in Europa, contestano agli stessi listini prezzi troppo elevati per i numeri. Dall’altra la Mifid2 ha previsto il cosiddetto “consolidated tape”. Vale a dire: la possibilità che un soggetto faccia da aggregatore dei dati per, poi, offrirli a prezzi contenuti e in maniera trasparente.
La previsione, però, non sembra avere seguito. L’oro dei dati, evidentemente, fa troppo gola alle Borse e agli “info provider”.

In cerca di redditività
Fin qui alcune considerazioni su tecnologia e costi. Ci sono, tuttavia, altri elementi che spingono le società-listino nell’ “agone” dei numeri. Quali? «Tra gli altri - risponde Rony Hamaui, docente di economia monetaria all’Università Cattolica di Milano - i tassi di mercato negativi. È un contesto che produce molteplici effetti». Ad esempio, essendo rimasti pochi asset con buoni rendimenti, «le aziende quotate utilizzano la loro cassa per i buy back. Il che diminuisce le azioni in circolazione e quindi i ricavi da trading per le Borse». «Un contesto di volumi ridotti - aggiunge Grilli - che caratterizza anche le obbligazioni». Non solo. I bassi oneri finanziari spingono le imprese, nel momento in cui devono raccogliere risorse, a sfruttare canali di finanziamento privati (ad esempio il private equity). Di conseguenza, come mostra il calo del controvalore globale dei collocamenti, scende il numero delle Ipo. «Di nuovo- sottolinea Hamaui - un’altra fonte di ricavi per i listini che si restringe». Dal che i gestori dei mercati cercano nuovo reddito tra i dati.

Minori margini
Infine la pressione sui margini di parti del loro business. Gli esperti ricordano la concorrenza sulle commissioni di trading da parte dei listini alternativi. In Europa il fenomeno è riconducibile al 2007 quando è entrata in vigore la Mifid1. La direttiva, tra le altre cose, ha stabilito il superamento della cosiddetta “concentrazione degli scambi”. Cioè: la regola secondo cui, essenzialmente, il titolo collocato sulla Borsa (tradizionale) può essere scambiato con i massimi requisiti di trasparenza ed efficienza solo su quel listino. Cancellata la norma, le piattaforme elettroniche alternative hanno avuto il campo libero. Le “Multilateral trading facilities” via via, sfruttando anche i minori oneri commissionali, hanno messo sotto pressione i mercati tradizionali.I quali, da un lato, hanno spinto sulla maggiore verticalizzazione di parti del loro business (ad esempio nel post trading); e, dall’altro, hanno per l’appunto cercato forme di ricavi complementari. «Il fenomeno -conclude Kunkl -ha prodotto degli effetti di cui, oggi, vediamo l’onda lunga. E, tuttavia, il suo impatto è alle spalle». Ciò che invece è in pieno svolgimento è la corsa all’oro dei dati.

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