Economist

Dalla morte del petrolio può nascere un elettro-Stato dominante. Indovinate dove

di Luca Angelini

Dalla morte del petrolio può nascere un elettro-Stato dominante. Indovinate dove Pixabay (da Pexels)

Parliamo spesso della morte lenta, ma inesorabile, del petrolio. Ma, lenta o veloce che sia, anche la fine dell’età dell’oro nero avrà anche, come ogni cambiamento di paradigma in campo energetico quantomeno dalla rivoluzione industriale in avanti, profonde ripercussione geopolitiche.
Basti pensare a quanto è cambiata la politica statunitense in Medio Oriente da quando la tecnica del fracking ha permesso agli Usa di sfruttare enormi giacimenti di petrolio e gas di faglia (shale) e di diventare non solo autosufficienti, ma persino esportatori di combustibili fossili. E l’Economist ha un’idea su quello che sarà il prossimo rivolgimento: «Impossibilitata ad essere un petrostato (pensate alle monarchie del Golfo, ndr), la Cina sta diventando quello che si potrebbe chiamare un elettro-Stato, con investimenti strategici lungo tutta la catena, dalla miniera al contatore».

La Cina e la distanza con la «Green Economy»

Attenzione, però. Il fatto che il mondo dell’energia si stia spostando dalla produzione di calore a quella di elettricità (ad esempio per i trasporti) non significa che la Cina diventerà il campione mondiale della green energy. Pechino, ricorda il settimanale britannico, «ha più di 1000 gigawatt di capacità di produzione elettrica da carbone installata» che vale il 49% del totale mondiale di elettricità da carbone. E l’uso di quest’ultimo, almeno per anni, in Cina continuerà a crescere, non a calare. Ciò premesso, il colosso asiatico può mettere sul piatto anche 445 Gw di elettricità da eolico e solare e 356 Gw di idroelettrico. E sta pure «costruendo centrali nucleari più in fretta di ogni altro Paese: l’età media dei suoi 48 reattori è inferiore a dieci anni». Pechino conta di far salire la percentuale di elettricità da atomo dal 5% attuale al 15% nel 2050. «L’evoluzione dei settori cinesi nucleare, eolico, solare e delle batterie varia in parte, ma la formula di base rimane la stessa - scrive l’Economist -: imparare dagli stranieri e poi usare massicci investimenti e dettami autoritari per sostenere il dispiegamento su larghissima scala».

Le «terre rare» e la rilevanza cinese nel settore delle batterie

Anche sul fronte delle «terre rare» e dei minerali necessari per batterie e altri prodotti tecnologici, Pechino ha giocato d’anticipo. Oltre a sfruttare le risorse minerarie del suo immenso territorio, si è preoccupata di stringere accordi con vari Paesi produttori (vedi il caso del cobalto della Repubblica democratica del Congo). Tutto ciò fa dire a un veterano del settore minerario americano, Robert Friedland, oggi a capo di Ivanohe Mines, un’impresa sostenuta da aziende cinesi, che la Cina, sulla strada verso un futuro con meno fonti fossili, «è probabilmente dieci anni avanti».

Europa e Stati Uniti e la (faticosa) strada del «Green Deal»

Non che Europa e Stati Uniti non abbiano carte da giocare. Il Green Deal europeo e l’impegno, ribadito pochi giorni fa, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, per far scendere le emissioni fossili Ue al 55% di quelle del 1990 entro il 2030. E, l’Europa, ricorda l’Economist, ha i suoi «campioni» in campo energetico, come Edf, Engie, Iberdrola, Orsted e anche l’Enel, leader negli investimenti in eolico e solare nei Paesi in via di sviluppo.
Quanto agli Stati Uniti, avrebbero tutte le capacità tecnologiche e di know how per rispondere alla sfida cinese, se soltanto Donald Trump mettesse da parte la fissazione di voler salvare il settore del carbone Usa e la smettesse di crogiolarsi sugli allori con frasi come «gli Stati Uniti sono oggi la superpotenza energetica numero uno nel mondo» e «non saremo mai più dipendenti da potenze ostili».

L’era necessaria della «diplomazia infrastrutturale»

Anche Pechino, però, ha dei compiti a casa da svolgere. «Per massimizzare il suo potere da elettro-Stato - conclude l’Economist -dovrà combinare i suoi muscoli produttivi sulle rinnovabili, e forse sul nucleare, con accordi che consentano alle sue imprese di fornire elettricità a un gran numero di Paesi. L’Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile ha sostenuto che questa “diplomazia infrastrutturale” possa rivelarsi, per il potere cinese nel XXI secolo, quanto la protezione delle rotte navali lo fu per il potere americano nel XX. Se lo userà con abilità, la transizione energetica potrebbe portarle più vantaggi di quelli mai ottenibili con pozzi, pompe e oleodotti». Il progetto monstre della Nuova via della seta, con i suoi alterni successi, dimostra, aggiungiamo, che magari non sempre Pechino ci riesce, ma di sicuro ci prova.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nella Rassegna stampa del Corriere della Sera, pubblicata ogni giorno sulla Digital edition e - in anteprima per gli abbonati - la sera, via newsletter. La trovate qui)

ULTIME NOTIZIE DA L’ECONOMIA
>