la polemica

Tassa smart working, non piace ai sindacati l’ipotesi di Deutsche Bank

di Michelangelo Borrillo

Tassa smart working, non piace ai sindacati l'ipotesi di Deutsche Bank

L’hanno chiamata smart tax. È solo un’ipotesi, ma già fa discutere. Si tratta di una tassa del 5% del salario a carico dei lavoratori che scelgono di lavorare da casa (quindi non costretti dal lockdown), con il cui ricavato finanziare sussidi a favore dei redditi bassi di coloro che non hanno la possibilità di lavorare da remoto, con lo smart working. La proposta è degli strategist di Deutsche Bank che in un lungo report titolato «Che cosa dobbiamo fare per ricostruire», con evidente riferimento all’economia nell’era del Covid, che hanno calcolato come la smart tax permetterebbe di raccogliere «49 miliardi di dollari all’anno negli Usa, 20 miliardi di euro in Germania e 7 miliardi di sterline in Gran Bretagna» da destinare ai «sussidi per i lavoratori a reddito basso che generalmente non possono lavorare da casa». Senza particolari controindicazioni: «Le persone che possono lavorare da casa e disconnettersi da una società che richiede il contatto personale hanno guadagnato molti benefici durante la pandemia. Una tassa del 5% per ogni giorno di lavoro da casa non peggiorerebbe le condizioni del lavoratore medio rispetto a lavorare in ufficio», si legge nel report.

I vantaggi degli «smart workers»

Secondo Deutsche Bank la ratio della tassa risiede nel minor contributo che gli smart workers apportano a una economia la cui infrastruttura resta incentrata sui rapporti personali «faccia a faccia» e dei cui benefici continuano a godere pienamente. Lavorare da casa, per gli analisti della banca tedesca, «è finanziariamente gratificante» in quanto permette di risparmiare «su spese dirette come viaggi, pranzo, abiti e pulizia» e «sulle spese indirette», come quelle legate alla socializzazione, «in cui si sarebbe incorsi in ufficio». A ciò si aggiungono una serie di «benefit intangibili» come «una maggiore sicurezza del lavoro, comodità e flessibilità». Questi vantaggi sono in grado di compensare ampiamente i costi dello smart working, che si presentano, ad esempio, «sotto forma di uno stress mentale aggiuntivo per giostrarsi tra lavoro e bambini e dover gestire un allestimento da ufficio imperfetto». «Questi costi non dovrebbero essere sottostimati ma in ogni caso impallidiscono a confronto con i vantaggi. Per questo la grande maggioranza dei lavoratori da casa desidera continuare a lavorare da remoto, almeno su base part-time, dopo la fine della pandemia».

La quantificazione: 7,5 euro al giorno

La tassa, secondo Deutsche Bank, si pagherebbe solo fuori dai periodi in cui il lavoro da casa è chiesto dal governo e solo per i giorni in cui effettivamente si lavora da remoto. Si tratterebbe di poco più di 10 dollari al giorno negli Usa, ipotizzando la sua applicazione a redditi di 55 mila dollari, di 7,5 euro in Europa per lavoratori con un reddito di 40 mila euro e di 7 sterline in Inghilterra per dipendenti con entrate per 35 mila sterline. Lo scopo dell’imposta «non è semplicemente sussidiare attività che non hanno futuro nel lungo termine» quanto «sostenere la massa di persone che sono state improvvisamente spostate da forze fuori dal loro controllo» e che «dovranno accettare lavori poco pagati mentre si riqualificano o decidono il prossimo passo da fare nella vita». «Da un punto di vista personale ed economico, ha senso che queste persone siano aiutate. E ha senso riconoscere quei lavoratori essenziali che si assumono il rischio di ammalarsi di Covid per bassi salari. Chi è abbastanza fortunato da essere nella posizione di disconnetersi dall’economia delle relazioni faccia a faccia glielo deve».

I sindacati: lo smart working è un diritto

I sindacati, però, non ci stanno. «Apprendo con sgomento che lo smart working sarebbe un privilegio — sottolinea Massimo Masi, segretario generale della Uilca — al punto che i lavoratori dovrebbero pagare per usufruirne. Lo sgomento diventa vera e propria rabbia quando ad avanzare una proposta del genere è addirittura una banca». «Voglio spiegare al gruppo Deutsche Bank — prosegue Masi — che in Italia esiste lo Statuto dei Lavoratori ed esistono i sindacati, con cui vanno discusse e condivise eventuali nuove linee guida. Inoltre ricordo al gruppo che in Italia il lavoro da remoto non è una concessione della banca al personale ma un diritto dei bancari, espressamente disciplinato nel rinnovo del contratto nazionale del credito, siglato il 19 dicembre 2019, quando la crisi legata al Covid-19 ancora non esisteva». «All’interno del contratto infatti è definito un articolo che disciplina il lavoro agile nel settore: oltre a inserire per tutto il settore linee guida comuni sullo smart working abbiamo ottenuto, primi in Italia e tra i primi in Europa, il diritto alla disconnessione, elemento fondamentale per garantire l’equilibrio tra vita lavorativa e vita personale», continua Masi. «Bene l’idea di pensare a quanti, a causa della pandemia, hanno subito e subiranno danni economici ma perché, mi chiedo, a essere penalizzati devono essere i bancari che, tra l’altro, in questi mesi di emergenza sanitaria e sociale hanno dato ampia prova di abnegazione e di responsabilità, senza mai tirarsi indietro e senza far mai mancare il proprio supporto alla comunità?», sottolinea Masi che conclude: «Dovrebbero essere i manager di questa banca a tassarsi, non i lavoratori che percepiscono uno stipendio di 1.500/1.800 euro. Credevamo che «la lotta di classe» o le divisioni fra lavoratori fossero un retaggio culturale degli anni passati. Consigliamo alla Deutsche Bank invece del più bieco populismo di aiutare di più le pmi, le imprese artigiane, le partite Iva con erogazioni del credito piuttosto che creare pretesti e divisioni inutili e pericolose.»

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