L’intervista

Parazzini (Deutsche Bank): una regia per i fondi Ue che arriveranno

di Nicola Saldutti

Parazzini (Deutsche Bank): una regia per i fondi Ue che arriveranno

Il punto è capire come vivere quest’emergenza guardando più lontano. Come rispondere alle urgenze della crisi «senza perdere di vista che Italia vogliamo diventare domani. Che Paese vogliamo essere. Una cosa è certa, l’Italia è essenziale per l’Europa, ma il destino dell’Italia è nell’Europa. È finito il tempo nel quale l’Unione europea veniva considerata una controparte …».

Roberto Parazzini, classe 1973, è ceo di Deutsche Bank Italia da giugno. Sei mesi nei quali l’economia sta attraversando una delle crisi più profonde. Quando ne usciremo nulla tornerà come prima. «Anche se per certi versi graduale, la reazione del governo è stata adeguata. Per tipologia e tempistica, per imprese e famiglie è stato definito un regime di interventi straordinari che sta tenendo. Certo, ora stiamo vivendo la seconda ondata. Ma quando il virus verrà sconfitto, dovremo essere pronti».

Ingegner Parazzini, nel frattempo Ungheria e Polonia sono pronte a mettere il veto sul Recovery fund...

«Il percorso non è a buon punto, sarà articolato. Le istituzioni mostrano qualche affanno, è vero. Nel 2021 l’emergenza, si spera, non sarà più al picco e i Paesi cosiddetti frugali dimenticheranno la solidarietà dell’emergenza. Ma noi ci stiamo adagiando troppo sul Recovery fund. Questo periodo-ponte è fondamentale, non possiamo sbagliare. Nel mondo privato sarebbe inconcepibile sprecare il capitale o i prestiti, non può accadere con i fondi europei. Per questo servono competenze manageriali in grado di gestire queste risorse, servirebbe un po’ più di privato nel pubblico e viceversa per gestire questa fase».

Le banche, per la verità, sono state considerate le responsabili dell’altra crisi…

«Nel 2008 e nel 2011 venimmo considerate la causa del problema, non sempre giustamente. Questa volta invece siamo parte della soluzione. Il sistema è più forte, più capitalizzato, anche se meno redditizio. Anche per noi è un’occasione per recuperare la reputazione».

Ma il sistema delle imprese come sta reggendo?

«Sta dimostrando di essere molto competitivo. Dalla moda alla meccanica, la biodiversità del Paese dimostra che l’asset Italia ha ancora un potenziale inespresso, che spesso noi stessi sottovalutiamo. L’Italia è un po’come un sub allenatissimo che con la pandemia ha perso una pinna e ricevuto una zavorra di 25 chili, da non sottovalutare, però. Con l’ossigeno aggiuntivo delle misure straordinarie ce la faremo, la capacità di recupero non ci manca. Certo, l’iter del Recovery fund sarà articolato, sarà necessario un accordo politico. Però non ci saranno scorciatoie: l’utilizzo delle risorse sarà meritocratico e non dobbiamo rischiare, dobbiamo farci trovare pronti».

Per la verità esistono già montagne di progetti ministeriali, a un certo punto nei lavori preparatori se ne contavano 600, possibili infrastrutture in lista d’attesa…

«Questa è la fase più delicata, bisogna investire risorse di tempo e manageriali per avere una visione a lungo termine, non a sei mesi. Non bisogna pensare solo alla riduzione del cuneo fiscale, ma al Paese che vogliamo diventare nella nuova Europa».

Lei da dove partirebbe?

«Da quanta Europa vogliamo che ci sia nel nostro essere italiani»

Non le sembra troppo?

«Pensi alla sanità, alla formazione, alle imprese, tutto va visto in ottica europea. Siamo un Paese per vecchi e dobbiamo diventare anche un Paese per giovani. L’ascensore sociale scricchiola. Prendiamo l’istruzione, la politica ci pensa poco perché non fa ottenere consensi nel breve termine. È vero, siamo dentro una crisi epocale. E nelle crisi i parametri ordinari saltano. Siamo nella seconda ondata. È il momento di essere attivi. La domanda è se abbiamo le competenze giuste per affrontarla» .

Ce le abbiamo?

«Servirebbero figure, come accade in molti altri Paesi, con competenze manageriali del settore privato. Ci vuole un po’ più di privato nel pubblico. E viceversa. Nelle posizioni chiave non solo politici, ma amministratori. C’è da pianificare. Certo, l’avversione al cambiamento è molto forte, ma bisogna andargli incontro. Prenda la piattaforma Zoom, solo con la pandemia tutti hanno adottato velocemente questo sistema per comunicare. Ora vale 4-5 volte una grande banca internazionale. Ecco, il sistema scolastico dovrebbe formare persone aperte al cambiamento. Ora i nostri ragazzi mirano al job, dovrebbero invece seguire un percorso che miri a costruire una mentalità imprenditoriale».

Le moratorie sono a 330 miliardi, un record. Cosa succederà quando il paracadute dovrà chiudersi?

«È bene che le misure durino finché dura l’emergenza. Però non tutti ce la faranno. Il fallimento è ancora visto come un tabù, mentre invece è sintomo di salute di un sistema economico. Il rischio è che possano finire in questa situazione aziende che in condizioni normali potrebbero prosperare, per questo è necessario che le misure diano tempo» .

Siamo arrivati a 2600 miliardi di euro di debito pubblico, un altro record…

«Il peso del debito è sostenibile, il nuovo debito è un’occasione storica per ringiovanire il sistema economico. Liberare spazio per le nuove iniziative, che a loro volta pagheranno le tasse per sostenere quel debito».

Intanto adesso le banche (e a cascata le imprese) devono misurarsi con il «calendar provisioning» sui criteri più stringenti della vigilanza Bce e sul default automatico da gennaio.

«Qui è urgente che si prendano decisioni. Queste regole sono state definite in un tempo che non era quello della pandemia. Ora sarebbe il periodo peggiore per applicarle, auspico che ci siano margini per rivedere tempi e modi della loro applicazione per non togliere ossigeno all’economia. Lo scenario è cambiato. Oggi siamo il principale veicolo di trasmissione delle misure della Bce e di aiuto dei governi. I colleghi hanno lavorato senza sosta per rispondere alle domande di moratoria, di prestiti garantiti, una nuova forma di solidarietà. Ma bisogna pensare fin d’ora a quando le garanzie pubbliche cominceranno a svanire».

Chi ha resistito meglio, finora?

«Chi ha saputo diversificare e ha l’esportazione come dna principale. E chi ha fatto della distribuzione alternativa il suo modello. Abbiamo visto Eataly crescere del 350% nell’ ecommerce durante i lockdown. La parte più bella del mio mestiere è vedere beni e prodotti realizzati in Italia acquistati in tutto il mondo. A volte ci sottovalutiamo. Ci sono molti settori, dalla chimica alla meccanica, nei quali siamo ai primi posti delle classifiche mondiali».

Il turismo è un asset centrale ma è quello che sta pagando di più…

«È l’asset più grande che abbiamo, il reddito da generare con la bellezza. Possiamo attirare denaro, idee. Mi auguro che diventi un punto-chiave del Next generation Eu, mi aspetto un lungo capitolo su questo. Possiamo diventare il Paese più visitato al mondo, ma le basi vanno gettate ora».

La crisi ha cambiato i progetti di tutti…

«Una banca come la nostra è stata riconvertita a gestire l‘emergenza. La priorità è stata e resta essere vicini al tessuto produttivo. Sul fronte tecnologico la decisione di esternalizzare la tecnologia a Cedacri è stata una scelta in questa direzione, indicata anche dal governatore della Banca d’Italia: per concentrarci sui clienti, su come interagire con loro».

La tecnologia cambia velocemente…

«Dopo questo periodo, meno della metà dei clienti avrà bisogno di recarsi in filiale. Si tratta di cambiare il modello. Ma non è solo una questione di automazione, ma di come il cliente vede la banca. Abbandonare le commodity, nelle quali avremo realtà come Amazon e concentrarsi sull’essere una società di servizi e tecnologica. Molto più consulenti per iniziative che creano valore per l’economia. Vuole sapere una cosa?»

Dica.

«In una banca tradizionale ci vogliono tra 60 e 120 clic per aprire un conto corrente. Per un paio di operatori fintech ne bastano 24. Con questo ci dobbiamo misurare. Ma serve una visione europea. Un gruppo come Deutsche Bank ha radici tedesche ma un’anima europea. Rivolta a imprenditori che fanno dell’Europa la propria casa. Questa per noi è una priorità».

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