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Bitcoin scende fino ai minimi dell’anno dopo la stretta di Pechino sul trading

Le quotazioni hanno bruciato qualsiasi record salendo fino a un picco prossimo a 65mila dollari a metà aprile, per poi dimezzare il valore in un paio di mesi

di Pierangelo Soldavini

(Reuters)

3' di lettura

Verrebbe da dire: «Niente di nuovo sotto il sole». Il film di cui è stato protagonista il bitcoin negli ultimi mesi non è molto differente da quello visto nel 2017: l’andamento sembra davvero la fotocopia di quanto successo quattro anni fa. La caduta è stata rapida e tumultuosa tanto quanto la salita. Per la cronaca martedì il bitcoin ha perso ancora terreno dopo la caduta del 10% di lunedì, scendendo fino a sotto quota 30mila dollari, ai minimi dell’anno. Il primo gennaio la criptovaluta valeva poco più di 29mila dollari, e ora non è molto lontana anche se in serata è tornato sopra i 32mila dollari (Ethereum a 1.906). Nel frattempo le quotazioni hanno bruciato qualsiasi record salendo fino a un picco prossimo a 65mila dollari a metà aprile, per poi dimezzare il suo valore nel giro di un paio di mesi.

Già lunedì qualche analista tecnico aveva lasciato presagire tempi grami per la criptovaluta: la media degli ultimi 50 giorni era scivolata sotto la media mobile a 200 giorni, disegnando una croce che gettava pesanti ombre sui corsi del prossimo periodo. Se anche il prossimo futuro dovesse ricalcare il recente passato potrebbe arrivare un lungo periodo di stagnazione delle quotazioni, caratterizzate sempre da quella volatilità eccessiva che è il tratto distintivo delle criptovalute.

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A onor del vero, i criptoentusiasti sottolineano che ora siamo comunque attorno a 30mila dollari, più di tre volte tanto rispetto agli 8.500 del minimo toccato all’indomani dello scoppio della bolla del 2017 e ai 9.600 di un anno fa. Non c’è dubbio che nel corso dell’ultimo anno le quotazioni del comparto siano state gonfiate dalla liquidità con cui le Banche centrali hanno inondato le economie, alla ricerca di rendimenti: da questo punto di vista le criptovalute hanno garantito performance ineguagliabili da altri strumenti, proprio alla luce della loro altissima volatilità arrivano a una capitalizzazione totale di quasi 2.500 miliardi (oggi è poco meno di 1.300).

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È vero altresì che in questo periodo il mercato delle criptovalute si è strutturato maggiormente sotto la spinta delle grandi banche di Wall Street che hanno dovuto rispolverare i progetti di presenza nel settore per soddisfare una domanda crescente da parte dei clienti. Sono ben noti i casi di Tesla e di Microstrategy che hanno investito fette consistenti della propria liquidità. Microstrategy ha approfittato del calo delle quotazioni di questi giorni per comprare bitcoin per altri 489 milioni di dollari, portando il totale dell’investimento a 2,74 miliardi, a un prezzo medio di poco più di 26mila dollari. Quindi ancora in plusvalenza.

Più difficile fare i conti in tasca a Elon Musk che avrebbe iniziato a comprare a un prezzo d’ingresso attorno a 31mila dollari: se così fosse la sua Tesla, inizierebbe ad accusare qualche minusvalenza, compensando l’utile di 100 milioni incamerato ad aprile con la cessione del 10% del pacchetto da 1,5 miliardi.

Come successo a inizio 2018, anche questa volta a decretare la “fine della ricreazione” è stata la Cina: nel 2017 Pechino aveva decretato la chiusura degli exchange cinesi, le piattaforme per la compravendita di criptovalute che allora dominavano il mercato, oggi la stretta riguarda tutto il resto, dal mining alle piattaforme “over the counter”. Nel fine settimane le autorità di Pechino hanno iniziato a chiudere intere mining farm partendo dal Sichuan e dallo Xinjiang, tra le regioni più attive nella certificazione delle transazioni.

Poi la Banca centrale cinese ha intimato alle principali istituzioni finanziarie, banche e piattaforme di pagamenti, di non permettere i pagamenti per il trading di criptovalute: eccessivi i rischi per la stabilità del sistema finanziario nazionale per lasciar correre. Le autorità cinesi erano già intervenute per frenare le ambizioni nei servizi finanziari di Jack Ma e della sua Ant Group alla vigilia dell’Ipo, ora congelano il bitcoin. La Banca cinese sembra quindi intenzionata a non volere manovre di disturbo verso la creazione dello yuan digitale, già in fase di sperimentazione in diverse città.

Pechino pare quindi intenzionata a fare le cose sul serio nei confronti del trading di criptovalute. Mentre nel resto del mondo le authority chiedono a gran voce regolamentazioni del settore e tutele per i risparmiatori, ben poco è cambiato rispetto a quattro anni fa: maggiori contorlli ma nessun quadro regolamentare. Se non l’autoregolamentazione dei soggetti più seri e consolidati del comparto.

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