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La rivincita (temporanea) dei combustibili fossili

Nonostante la determinazione dei governi occidentali verso una transizione verde accelerata, lo sviluppo e il controllo di adeguate quantità di combustibili fossili restano un obiettivo strategico primario

di Marcello Minenna

(zhu difeng - stock.adobe.com)

6' di lettura

Con l’arrivo della stagione calda nell’emisfero Nord, la crisi energetica delle economie occidentali sta mutando forma. Da alcune settimane, complice il graduale aumento delle temperature e la maggiore disponibilità di fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica, le tensioni sul prezzo del gas naturale hanno mostrato un certo allentamento, con un rapido riallineamento dei prezzi ai livelli di settembre/ottobre 2021 la: un livello certo molto alto, ma lontano dai picchi impressionanti registrati tra novembre 2021 e marzo 2022.

La situazione rimane comunque volatile e soggetta ad improvvisi cambiamenti del quadro geopolitico. In Europa, i livelli di stoccaggio delle riserve stanno lentamente salendo intorno al 30/35%, un livello comunque parecchio lontano rispetto a quel 90% che servirebbe, nel caso di blocco totale del gas russo, a poter superare un’intera stagione invernale senza ricorrere a restrizioni dal lato della domanda.

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Nel frattempo, il prezzo degli altri idrocarburi corre all’impazzata (vedi Figura 1): il carbone, ad esempio, oggi è scambiato sui mercati internazionali ad un prezzo del 600% più alto rispetto a gennaio 2020: de facto, si tratta un incremento superiore a quello registrato per il gas. A guidare lo sprint di un combustibile considerato solo un paio di anni fa in declino terminale è la domanda delle grandi economie emergenti di Cina ed India, che non riescono a soddisfare i consumi con la sola produzione interna, nonostante gli enormi sforzi profusi nell’aumento della capacità produttiva.

ANDAMENTO DEL PREZZO SUI MERCATI INTERNAZIONALI DELLE PRINCIPALI COMMODITIES
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Il petrolio infine resta stabilmente sopra i 100$ al barile, per via dello shock all’offerta provocato dalle sanzioni occidentali alla Russia, che pur non proibendo (ancora) l’acquisto di petrolio russo, lo stanno rendendo molto più difficoltoso. I combustibili fossili insomma stanno vivendo una tarda primavera, in un momento di ripensamento generalizzato dei percorsi di transizione energetica verso le rinnovabili.

Petrolio: le mosse dei paesi Opec e il risveglio dello Shale Oil Usa

L’offerta dei Paesi Opec nel 2022 non sembra subire scossoni di rilievo, rimanendo limitata ad incrementi periodici di circa 400.000 barili al giorno (b/g), rilasciati ogni 2-3 mesi. Non c’è stata nessuna corsa alla sostituzione dell’offerta di petrolio russo da parte dell’unico swing producer in grado di alterare rapidamente l’offerta: l’Arabia Saudita. I sauditi infatti non appaiono propensi ad assecondare una crescita significativa dell’offerta; i rapporti diplomatici con il primo Paese consumatore, gli USA, sono in deterioramento per via della progressione dei negoziati nucleari Onu-Iran ed il disinteresse strategico Usa al conflitto saudita in Yemen.

L’Agenzia Internazionale per l’Energia (International energy agency, Iea) prevede di conseguenza una stabilizzazione del surplus globale di capacità produttiva (cioè il massimo incremento di produzione teoricamente ottenibile da riserve note o facilmente raggiungibili, vedi Figura 2) intorno ai 3,5 milioni di barili al giorno, anche se è utile notare come questo valore sia stato rivisto costantemente al ribasso negli ultimi mesi per oltre 2 milioni di b/g.

PETROLIO - PREZZO E SURPLUS DI CAPACITÀ PRODUTTIVA
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Per quanto riguarda l’offerta non-Opec, dopo 2 anni di torpore profondo, si registrano dei movimenti significativi nell’offerta di shale oil Usa (vedi Figura 3). I prezzi persistentemente alti hanno infatti finalmente stimolato la ripresa della produzione nei principali giacimenti shale. I tassi di incremento sono tornati stabilmente positivi intorno all’8%-10%, mentre l’industria va lentamente recuperando, al costo di forti rialzi salariali, il know-how tecnico di quella forza-lavoro qualificata ed esperta che era stata licenziata in massa tra marzo ed aprile 2020.

L’eventuale tenuta della ripartenza della produzione rimane comunque dipendente dal legame stretto con l’andamento dei prezzi del gas naturale: lo shale oil è per definizione un petrolio “pesante”, da sottoporre ad una elaborata procedura di raffinazione (il c.d. hydrocracking) che richiede la combustione di elevate quantità di gas. Di conseguenza se il prezzo del gas cresce rispetto al prezzo dello shale oil a dismisura come accaduto recentemente, i costi di produzione possono superare i benefici derivanti dall’aumento (più limitato) del prezzo di vendita e non c’è convenienza ad aumentare la produzione.

USA - ANDAMENTO DELLA PRODUZIONE DI SHALE OIL
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In ogni caso, siamo ben lontani dai ritmi di espansione registrati in passato (+50% al picco del ciclo 2010-2015 e +30% tra il 2017 ed il 2020) ed l’attuale trend di crescita appare molto più moderato anche per via delle condizioni di finanziamento per le aziende più restrittive rispetto al periodo di boom della produzione, caratterizzato da denaro “facile” in ingresso da fondi di investimento speculativi e non.

Le riduzioni delle scorte e l’impatto delle misure di sostegno alla domanda

Lo sviluppo interessante di questo periodo arriva più che altro dal lato della domanda: gli interventi di calmieramento dei prezzi dei carburanti in Europa e negli Usa tramite sconto fiscale ed il rilascio di ingenti quantità di riserve petrolifere strategiche stanno sostenendo i consumi, nonostante i prezzi alla produzione restino elevati. Ciò si traduce in una costante riduzione degli stock di greggio e prodotti raffinati sia in Europa che oltreoceano (del 17% e del 10% per le due aree rispettivamente).

In special modo stanno soffrendo le scorte di petrolio light sweet, cioè quello di alta qualità, leggero e poco costoso da raffinare. Il sito di stoccaggio Usa di Cushing, tra i più grandi al mondo per il light sweet, sta registrando una velocità di declino delle scorte doppia rispetto agli stock totali.

Per quanto riguarda l’Unione Europea (Ue), è possibile decomporre analiticamente il calo degli stock per categorie al fine di capire quale prodotto abbia inciso maggiormente. Pur non disponendo dei dati più recenti (vedi Figura 4), si può agevolmente notare il trend discendente degli stock a partire da inizio 2021 che sembra riguardare non solo il greggio grezzo ma anche le riserve di prodotti raffinati. A febbraio 2022 (ultimo dato disponibile) il calo è stato tra i più forti mai registrati, particolarmente marcato per diesel e GPL (gas propano, -57 milioni di barili), kerosene per aviazione (-17 milioni) e greggio (-50 milioni).

UNIONE EUROPEA - VARIAZIONE ANNUALE DEGLI STOCK DI PETROLIO E PRODOTTI RAFFINATI
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Il fenomeno è particolarmente significativo se consideriamo che la forte dipendenza dell’Ue dalle forniture russe di diesel, il cui tracollo è avvenuto dopo l’avvio delle ostilità con l’Ucraina, deve ancora manifestarsi pienamente nei dati. Tra marzo ed aprile 2022 si sono intensificati gli sforzi di diversificazione degli approvvigionamenti e la quota di diesel importato dal Medio Oriente dovrebbe incrementarsi nel breve termine a compensazione delle mancate importazioni dalla Russia.

Nuovi record nel consumo e lo stopo al “phasing out” globale del carbone

Nel 2021 il percorso di phasing-out del carbone come fonte di energia primaria si è rivelato ottimistico ed inadeguato. L’esplosione della domanda in Cina ed India nella fase di rapida ripresa della crescita globale (primi due Paesi produttori al mondo, vedi Figura 5) è stata sottovalutata, soprattutto dopo il forte declino registrato nel 2020 a causa dei lockdowns generalizzati (vedi Figura 6). Nel 2021 la produzione di carbone è risultata in aumento in tutte le principali economie, compresi gli Usa e l’Ue, dove appariva consolidato un trend di declino di lungo termine.

CARBONE - QUOTE DEI PRINCIPALI PAESI NELLA PRODUZIONE GLOBALE
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In Europa la richiesta di carbone per elettricità è risultata amplificata dall’altissimo prezzo del gas naturale e dalle condizioni meteo che hanno imposto un ridotto sfruttamento delle fonti rinnovabili. Nel quarto trimestre 2021 le centrali a carbone del vecchio continente hanno generato 110 Terawattora contro i 92 generati dal gas naturale, ribaltando un trend di declino decennale mentre i combustibili fossili hanno prodotto il 39% dell’elettricità rispetto al 35% delle fonti rinnovabili. Nello stesso periodo, il 67% del gas utilizzato per la generazione dell’elettricità è stato importato dalla Russia.

VARIAZIONI ANNUALI NELLA PRODUZIONE GLOBALE DI CARBONE
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Nonostante gli incrementi di produzione, Cina ed India non riescono a soddisfare il fabbisogno interno e stanno consolidando le linee di interscambio con Russia, Australia ed Indonesia. Questo fenomeno, insieme alle sanzioni Ue e Usa alla Russia, sta ridisegnando radicalmente le rotte commerciali del carbone a livello globale.In ogni caso l’Iea ritiene che il ritorno alla ribalta del carbone sia temporaneo, soprattutto in macro-aree dove il trend di declino della produzione si era già consolidato da tempo (Ue, Usa). Nelle proiezioni Iea il 2022 dovrebbe già vedere una riduzione della produzione europea e statunitense per circa 126 milioni di tonnellate metriche ed un rallentamento vistoso della crescita cinese, mentre il picco globale di produzione sarebbe atteso per il 2024 intorno ad 8.000 milioni di tonnellate metriche.

Gli sconvolgimenti geopolitici di questi mesi stanno mettendo in luce con estrema chiarezza (e un certo disincanto) come, nonostante la determinazione dei governi occidentali verso una transizione verde accelerata, lo sviluppo ed il controllo di adeguate quantità di combustibili fossili rimangano un obiettivo strategico primario per tutelare crescita, occupazione e sicurezza nazionale.

Marcello Minenna, Direttore Generale dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli

@MarcelloMinenna

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