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Perché la fiducia genera affidabilità e la sfiducia opportunismo?

Non potremmo vivere senza fidarci. Come sostiene Niklas Luhmann, «senza fiducia (le persone) non potrebbero nemmeno alzarsi dal letto la mattina»

di Vittorio Pelligra

(Adobe Stock)

6' di lettura

Fidarsi o non fidarsi? È una questione che ci si pone implicitamente o esplicitamene decine di volte durante ognuna delle nostre giornate. Quanto sarà affidabile l’autista del bus che prendo per andare al lavoro? L’impiegato che gestisce le buste-paga avrà fatto correttamente tutti i calcoli per determinare il mio stipendio questo mese? I miei colleghi si staranno impegnando quanto dovrebbero per completare quel progetto che, insieme, ci è stato assegnato? Sarà davvero fresco il pesce che mi ha venduto ieri il pescivendolo? La terapia che mi ha prescritto il medico per quel disturbo che ho da qualche tempo sarà davvero la più adeguata? E quanti altri esempi potremmo fare, in ambiti così diversi come la politica, la tecnologia, la stampa, la famiglia.

Non potremmo vivere senza fidarci. Come sostiene Niklas Luhmann, «senza fiducia (le persone) non potrebbero nemmeno alzarsi dal letto la mattina. Verrebbero assalite da una paura indeterminata, da un panico paralizzante». La pensava allo stesso modo il suo maestro Georg Simmel, il quale era convinto che «senza la fiducia generalizzata che le persone nutrono vicendevolmente, la società stessa si disintegrerebbe».

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Nonostante questo ruolo così centrale che il tema della fiducia riveste nell’ambito delle nostre relazioni sociali, la teoria economica fatica ancora a coglierne a pieno il significato e a darne una spiegazione soddisfacente. Una delle ragioni ha probabilmente a che dare con l’impostazione consequenzialista della teoria della scelta adottata in economia. Secondo questo approccio le preferenze su una determinata azione derivano esclusivamente dalle preferenze associate alle conseguenze di quella data azione. Se l’azione A produce la conseguenza alfa e l’azione B invece quella beta, allora io preferirò fare A invece di B solo se preferisco alfa a beta. Questo ragionamento sembra ragionevole, e infatti lo è, anche se a ben vedere è decisamente limitativo.

La teoria smentita

In un interessante esperimento Ernst Fehr e John List prendono in considerazione un campione di amministratori delegati di piccole imprese. Ne osservano il comportamento nell’ambito di un gioco chiamato “Investment game” (il gioco dell’investimento). In particolare, vengono considerate due varianti del gioco, una in cui il primo giocatore è dotato di una certa somma di denaro e deve decidere se e quanto della sua dotazione inviare al giocatore 2. Se invia una somma positiva, questa viene triplicata e consegnata al giocatore 2, che può, a sua volta, decidere quanto, se del caso, rimandare indietro.

Assumendo che entrambi i giocatori siano razionali e autointeressati possiamo prevedere che siccome il giocatore 2 non manderebbe niente indietro allora per evitare la “fregatura” il giocatore 1 deciderebbe a sua volta di non investire niente. In questo modo una relazione mutuamente vantaggiosa non si verifica proprio a causa della mancanza di fiducia tra i due.

Per ridurre il rischio di opportunismo da parte del giocatore 2 si studia anche una seconda variante del gioco. In questo caso il giocatore 1 può decidere se adottare uno schema che prevede una sanzione per il giocatore 2 nel caso in cui questi dovesse rimandare al giocatore 1 una somma inferiore a quella richiesta. In questo caso il rischio della sanzione dovrebbe far aumentare la disponibilità del giocatore 2 a comportarsi in maniera affidabile restituendo parte dell’investimento a 1. Tuttavia, questo non è ciò che si osserva.

Sia nella prima variante che nella seconda molti giocatori 1 decidono di investire il loro denaro e molti giocatori 2 decidono di restituirne una parte in modo che lo scambio risulti vantaggioso per entrambi. Ma ciò che sorprende di più è che tale dinamica viene scoraggiata dall’introduzione della sanzione che invece era stata pensata proprio per far aumentare la fiducia tra le parti. Ancora più sorprendente, forse, è il fatto che i risultati migliori si ottengono quando il giocatore 1 sceglie di non utilizzare lo schema con la sanzione anche quando avrebbe potuto farlo.

Fehr e List commentano questo risultato affermando che «se gli agenti non sono minacciati dalla sanzione, il semplice fatto che il giocatore 1 avrebbe potuto utilizzare l’opzione della sanzione influisce positivamente sull’affidabilità del giocatore 2».

Il peso delle intenzioni

Ciò che emerge da questo risultato, quindi, è che per le persone reali ciò che sarebbe potuto essere è rilevante quanto le scelte effettivamente fatte. Lo stesso investimento produce risposte differenti da parte del giocatore 2 a seconda del fatto che il giocatore 1 avrebbe potuto scegliere la sanzione oppure no. La possibilità di scegliere lo schema con la sanzione unitamente alla scelta di non avvalersene induce risposte più affidabili da parte dei giocatori 2 perché segnala loro un livello di fiducia più elevato. È come se il giocatore 1 dicesse al giocatore 2: «Potrei proteggermi usando la sanzione ma scelgo di non farlo perché mi fido di te».

La fiducia genera dunque affidabilità mentre la diffidenza genera opportunismo. I risultati dell’esperimento, dunque, mettono in luce come le intenzioni, oltre che le conseguenze delle azioni, siano fondamentali sia nel nostro processo decisionale che nel processo di valutazione delle scelte altrui. Le intenzioni possono essere associate ad un’azione attraverso un processo proiettivo che tiene conto di ciò che l’agente avrebbe potuto fare e non ha fatto. Il problema è che un simile processo non può essere descritto nel linguaggio formale della teoria economica standard per via della sua natura prettamente consequenzialista.

Ciò spiega la difficoltà di questo approccio a comprendere a fondo fenomeni sociali rilevanti, come per esempio quello delle relazioni fiduciarie. Tali limitazioni derivano dalla mancanza di una teoria che riesca a formalizzare il processo di ragionamento che ci consente, per citare l’economista Herbert Gintis, di «comprendere e condividere il contenuto delle altre menti» (The Bounds of Reason, Game Theory and the Unification of the Behavioral Sciences. Princeton University Press, 2009).

Il contributo della psicologia

Abbiamo visto nel Mind the Economy della settimana scorsa come all’inizio degli anni ‘40 del secolo scorso John von Neumann e Oskar Morgenstern iniziarono a sviluppare la teoria dei giochi proprio per cercare di superare i limiti che la teoria economica neoclassica incontrava nel descrivere e spiegare i fenomeni caratterizzati da interdipendenza strategica. Tuttavia, come anche questi risultati sperimentali mostrano, la teoria dei giochi classica, dopo decenni di sviluppi e innovazioni non è ancora in grado di dare una descrizione e una spiegazione soddisfacente di questo genere di fenomeni. Un promettente passo in avanti sembra però arrivare dalla cosiddetta psychological game theory (teoria dei giochi psicologici) sviluppata in questi ultimi anni da un gruppo di brillanti teorici e sperimentalisti desiderosi di comprendere più a fondo la logica sottostante l’intenzionalità, le emozioni sociali e altre forme di comunicazione intersoggettiva. Questo viene fatto, da una parte, superando l’impostazione consequenzialista e dall’altra, facendo in modo che il valore di certe azioni sia legato esplicitamente alle intenzioni, alle credenze e alle emozioni dei giocatori.

La teoria dei giochi psicologici differisce rispetto alla teoria classica, principalmente perché è in grado di considerare l’interazione tra soggetti ad un livello più profondo. Nel processo decisionale, infatti, non si prendono in considerazione solamente le azioni da compiere e le credenze circa le azioni che compiranno gli altri, come nella teoria dei giochi classica, ma anche le credenze di ordine superiore al primo, vale a dire ciò che ogni giocatore crede che gli altri si aspettino da lui, ciò che questi credono che egli creda che i primi si aspettino da lui, e così via.

Questo espediente epistemico consente di descrivere e formalizzare tutte quelle ragioni per l’azione che sono prettamente emotive e relazionali. Una ben definita classe di emozioni, infatti, ha radice relazionale: sono quelle emozioni che dipendono dalle attese degli altri circa il nostro comportamento e dalle credenze individuali rispetto a tali aspettative. La gioia per essere riusciti a sorprendere piacevolmente un amico deriva dal fatto che l’amico si aspettava un comportamento differente rispetto a quello che abbiamo posto in essere. Allo stesso modo, ci sentiamo in colpa quando sappiamo che qualcun altro contava su di noi, e noi coscientemente abbiamo deluso tali aspettative.

Emozioni come l’orgoglio, il risentimento, la colpa e la gratitudine, hanno tutte la stessa forza motivazionale e la stessa natura epistemica. Mentre la teoria dei giochi classica ma anche i modelli più sofisticati basati sull’altruismo o sull’equità si fondano su una visione ipersemplificata dell’intenzionalità, la teoria dei giochi psicologici e i modelli che sfruttano la sua struttura epistemica permettono di descrivere agenti che sono capaci di ascrivere intenzioni alle azioni osservate o immaginate degli altri giocatori, e di formalizzare questo genere di motivazioni relazionali. Grazie a questi nuovi strumenti analitici, la teoria dei giochi psicologici sembra in grado di affrontare e, in una certa misura, di risolvere alcuni dei problemi più impegnativi emersi nell’ambito della teoria dei giochi classica negli ultimi anni.

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